giovedì 26 giugno 2014

IL TICKET RESTAURANT DEVE ESSERE UN PLUS NON UN MUST

SE TOLGO I TICKET RESTAURANT, POI CHI VIENE A PRANZO NEL MIO RISTORANTE ?
Questa affermazione è frustrante e dovrebbe esserlo per primo per te, perché tu stai dicendo che i clienti vengono da te perché accetti i TR.
Guarda che non è vero. I clienti vengono da te se gli dai da mangiare bene e a sufficienza.
Oramai i TR vengono accettati da gran parte della distribuzione organizzata (supermercati) e c'è anche un gruppo su FB https://www.facebook.com/AndareAmignotte?fref=ts che suggerisce un modo più fantasioso per usarli.
Lascia che i tuoi clienti li utilizzano da altre parti
Ti regalo un suggerimento pratico.....prepara per gli avventori del tuo locale che ancora vogliono o provano a pagare il conto con i TR una lista di tutti i supermercati nella tua zona dove sono ben accetti.
Ma vediamo quale sono le 3 principali categorie di ristoratori che accettano i buoni pasto :
    1. GLI SPRECATORI DI TEMPO
    2. GLI SPRECATORI DI DENARO
    3. GLI SPRECATORI DI TEMPO E DENARO
I ristoratori decidono inizialmente di scambiare il pasto con un TR e poi una volta che devono cambiarli in DENARO si trasformano appunto in SPRECATORI.
Vediamo ogni singola categoria quello che ci fa con quel malloppetto di soldi del monopoli.
GLI SPRECATORI DI TEMPO
Prendono tutti i loro ticket restaurant li dividono per azienda fornitrice, fanno una fattura per ogni azienda fornitrice e poi li portano nei luoghi di raccolta di ogni azienda fornitrice e si fanno una bella coda per consegnare il loro modulino.
Se non ci sono problemi o contestazioni dopo quanti giorni gli arriva il bonifico in banca ?
45 giorni
A meno che con un altro piccolo sacrificio economico che si tratta o di un importo fisso o di un'ulteriore percentuale sui loro TR possono averli prima. PAGARE-PAGARE.
PER ME E' FOLLIA PURA. Ma quanto ca...... gli costa in termini di tempo ? Ma che valore danno al loro tempo ?
Torno sempre sullo stesso punto. Un ristoratore HA IL DOVERE di valorizzare il suo tempo al meglio. Così come in un mio precedente articolo http://ilvenditoremigliore.com/?p=517 se si va alla METRO per fare la spesa secondo me si commette un errore, così se si usa il proprio tempo per la BUROCRAZIA legata ai TR si sta buttando nel cesso il valore del proprio tempo.
UN RISTORATORE SI DEVE OCCUPARE DI ALTRO.
GLI SPRECATORI DI DENARO
Oppure c'è un'altra strada che conosciamo tutti, quella di scambiare i TR con alcuni dei loro fornitori (sempre meno a dir la verità) con della merce.
A parte il fatto che non è una pratica diciamo convenzionale, ma hanno pensato a quanti soldi perdono ogni volta che lo fanno ?
Che differenza c'è tra il listino chiamiamolo "standard" e quello che gli viene applicato se pagano con i TR ?
Si, qual è il ricarico medio che applica un fornitore se deve essere pagato con i TR, possiamo parlare di una percentuale che varia dal 10% al 15% ?
Inoltre, siccome sono solo i fornitori piccoli, i fornitori di quartiere ad applicare ancora questa politica di commercio i loro listini partono da un prezzo già fuori dalle logiche di mercato, lontanissimo dai listini delle SPA.
Questa comodità gli costa il 20% (calcolato per difetto) in più su ogni prodotto e se parliamo di una fattura media mensile di 3000,00 €, converrai con me che questo "giochetto" da circa 600,00 € al mese costa un po' troppo.
GLI SPRECATORI DI TEMPO E DENARO
Lascio per ultimi quelli che secondo me sono l'ANTI-IMPRESA per eccellenza.
I ristoratori che con i TR vanno a fare la spesa per il proprio ristorante, nella distribuzione organizzata.
MI VIENE IL MAL DI FEGATO
Due delle specie peggiori si incarnano nel supereroe del finto risparmio. Quello che va a fare la spesa lasciando il suo ristorante per andare a comprare con i TR prodotti ad un prezzo fuori da ogni logica, allo stesso prezzo al quale la Sig.ra Maria compra le cose per casa sua.
Se fanno questa vita dove il loro tempo e le loro energie sono impegnate per il 50% nei
i loro acquisti, prima ancora di chiudere gli verrà un esaurimento nervoso.
Io li vedo, sempre di fretta quando mi ricevono nei loro locali. Io lo dico per loro, per il loro bene.
Lo slogan è sempre quello e lo ripeto a tutte e 3 le categorie di SPRECATORI.
La vostra abilità nel fare impresa non è nell'accentrare su di voi il peso degli acquisti, ma quello di scegliervi un venditore CAZZUTO capace di affiancarvi.
Umberto Tiriticco

martedì 17 giugno 2014

CERTIFICHIAMOCI - IL DIRETTORE D’ALBERGO

Intervista a Maurizio Faroldi, Hotel Milano Scala, Milano

Il General Manager dell’Hotel Milano Scala di Milano, seconda generazione di direttori d’albergo e di soci ADA (l’associazione italiana dei direttori d’albergo), lancia un forte allarme sul rischio di estinzione del ruolo professionale del direttore d’albergo in Italia. Bisogna riformare il ruolo attraverso valori professionali certificati e acquisiti con una formazione permanente


Maurizio Faroldi, classe 1957, è il General Manager dell’Hotel Milano Scala di Milano, nel centralissimo quartiere di Brera.
“Nel 2015 saranno trent’anni che dirigo alberghi” esordisce Maurizio Faroldi, laurea in medicina, figlio di un altro grande direttore d’albergo, Giuseppe Faroldi, che a Milano ha diretto per decenni l’Hotel Windsor. “Mi rendo conto che la nostra professione è di fronte a scelte epocali. L’avvento di Internet nella prima decade di questo secolo ha cambiato in maniera strategica il modo di fare turismo e soprattutto di lavorare in albergo. Non c’è stata questa percezione da parte della nostra categoria. Non si è capito la portata della sfida.”
Il padre di Maurizio, Giuseppe Faroldi, è stato anche presidente onorario di ADA, l’associazione dei direttori d’albergo che è nata a Milano nel 1955. Maurizio fin da bambino partecipava alle feste dell’ADA dove aveva il ruolo di mascotte: era lui a “pescare” i biglietti vincenti durante le lotterie.
“La più grande contraddizione che vive il nostro ruolo oggi è di tipo carismatico. In Italia molti datori di lavoro non riconoscono la professionalità del ruolo del direttore d’albergo. Non ne riconoscono il ruolo di maestro d’orchestra. Lo sottovalutano. Ciò dipende anche da noi, che in questi anni non siamo riusciti a definire il nostro ruolo in questo inizio di Terzo Millennio. Dobbiamo ridefinire soprattutto la nostra identità professionale. Non basta più la gavetta professionale, l’impegno a restare in albergo 12/14 ore al giorno. Bisogna certificare le competenze che perimetrano la nostra professionalità, che gli danno spessore e credibilità. Siamo Manager. Che cosa significa? Quale percorso professionale implica? Quale associazione è in grado di difendere e promuovere il nostro ruolo? Quali alleanze dobbiamo stabilire?”

L’Italia possiede il più importante patrimonio immobiliare alberghiero d’Europa, tra i primi nel mondo. Lo stesso vale per l’importanza del settore turistico italiano nel mondo, che oggi è tra i primi cinque con Stati Uniti, Cina, Francia e Spagna. Eppure in Italia non esiste un’università dedicata al turismo e al Management alberghiero in particolare, non esiste una qualifica certificata del ruolo del direttore alberghiero che lo collochi alla pari con gli altri Manager del settore industriale. Per dirigere un albergo non è richiesta una qualifica legale.
“Il settore produttivo in cui operiamo ha la fortuna di essere l’unico che non è delocalizzabile all’estero e nello stesso tempo continua ad avere prospettive di crescita, al pari del turismo internazionale, che ci garantisce un futuro in Italia e nel mondo. Qualsiasi governo che operi in Italia con un minimo di strategia e di senso della prospettiva dovrebbe impegnarsi per incentivare da un lato l’esportazione di merci e dall’altro l’importazione di turisti, i due anelli più forti della catena economica italiana. Da questo punto di vista, il nostro settore è inaffondabile. Nello stesso tempo non è valutato nell’opinione pubblica e tra gli stessi protagonisti del turismo in Italia come un settore strategico. La sua sottovalutazione ha radici antiche. Noi direttori dobbiamo recuperare l’orgoglio professionale che avevano i nostri padri, che questo settore hanno rimesso in piedi e sviluppato dopo la seconda guerra mondiale. Dobbiamo rivedere in profondità competenze e percorsi professionali per ritrovare quel ruolo carismatico che una volta caratterizzava il ruolo del Manager alberghiero. Il direttore d’albergo deve ricostruire un perimetro di competenze rispetto al quale se sei dentro questo perimetro acquisisci una abilitazione a un ruolo professionale, se sei fuori nessuno ti impedisce di acquisire questo ruolo ma non in maniera certificata. La certificazione delle competenze porta a una identità professionale contrattuale. Fino a oggi il nostro ruolo professionale è contraddittorio: siamo inquadrati dal punto di vista sindacale come dipendenti, nei momenti di contrattazione sindacale però assumiamo un ruolo dirigenziale opposto al primo, ruolo che è riconosciuto solo a una frazione di noi, coloro che hanno il contratto di dirigenti, contratto che i nostri imprenditori tendono a disconoscere progressivamente. Sono poco più di un centinaio i dirigenti aziendali nel settore alberghiero italiano, settore che vanta oltre 34.000 unità produttive. Una discrepanza che balza immediatamente agli occhi. Questi dirigenti sono inquadrati in Manager Italia e hanno spalle professionali assai più robuste di tutti i loro colleghi che svolgono e hanno le stesse responsabilità in albergo. Questa debolezza professionale dovrebbe obbligarci a una serie di considerazioni.”

Quali sono allora i passaggi obbligati per tornare a essere Manager alberghieri riconosciuti come tali a tutti gli effetti?
“Bisogna partire dalla certificazione delle competenze, poi dotarci di una casa comune con i dirigenti d’azienda, vale a dire Manager d’Italia, quindi disporre di un’associazione professionale specifica (come ADA) che ci aiuti e ci imponga nello stesso tempo una formazione continua indispensabile per poter mantenere il nostro ruolo in un mondo in continuo cambiamento dove la qualità della sfida professionale evolve sempre più rapidamente. Le competenze acquisite nel passato professionale di un dirigente d’albergo non sono mai sufficienti, vanno continuamente messe a confronto con ciò che succede nella società globale in cui operiamo, che è innanzitutto una società sempre più tecnologica. Dobbiamo verificare le nostre competenze e nello stesso tempo formarci in continuazione. Sono passaggi professionali obbligati pena l’estinzione del nostro ruolo in albergo. Se non cogliamo l’essenza della sfida, rischiamo di ritrovarci a breve in aziende alberghiere dove tutti i ruoli specifici saranno altamente specializzati, dal Food & Beverage al Financing Control al Sales & Marketing, senza disporre però di un direttore d’orchestra che governi e armonizzi l’insieme.”

Internet ha rivoluzionato definitivamente il settore?
“Nella mia esperienza professionale ho avuto la responsabilità di numerose aperture alberghiere, le famose start up. Già all’inizio del decennio del 2000 mi ero reso conto delle potenzialità di Internet e delle cosiddette OTA, i tour operators online. Ricordo nel 2004 l’arrivo della prima produttrice di Booking.com che proponeva i contratti commerciali con la sua organizzazione. Quando nel 2006 ho lavorato sul Lago di Garda, avevo già rapporti con una dozzina di OTA. Ero unico, soprattutto fuori delle grandi città. La vendita online è diventata la vera spina dorsale del nostro settore. Comprenderlo in tempo non solo ti dava una marcia in più dal punto di vista competitivo, ma ci avrebbe anche aiutato a prevenire lo strapotere che le OTA hanno acquisito in questo breve arco di tempo. Con le OTA non si tratta separatamente, bisogna saper fare rete, soprattutto come destinazione. Sono multinazionali, ti schiacciano se operi individualmente. Internet ha mutato in profondità il modo stesso di vendere il prodotto alberghiero. Oggi è diventato indispensabile il meccanismo stesso con il quale si procede alla vendita del prodotto turistico. Non basta più la sola qualità del prodotto, conta anche la sua Reputazione. Il prezzo è il risultato pressoché algebrico del rapporto tra Reputation, Location e Qualità del prodotto. La Reputation te la dà Internet, o meglio te la dà il modo nel quale sei in Internet e il modo nel quale ti sei organizzato in albergo per focalizzare tutti i reparti sull’acquisizione di una solida Reputation consapevole tra la clientela, che è sempre stata il giudice finale della nostra attività con il più classico dei passa parola ma che oggi dispone di uno strumento di promozione o di penalizzazione quale non si era mai visto in passato: rapido, immediato, categorico, pervasivo, invasivo. La presenza o l’assenza di un regista consapevole e professionalmente preparato fa spesso la differenza tra successo e fallimento di un albergo, di un gruppo alberghiero, di una catena alberghiera. Ciò implica innanzitutto una profonda consapevolezza del ruolo da parte nostra, in secondo luogo implica una capacità della nostra categoria di riacquisire un ruolo carismatico nei confronti dei nostri datori di lavoro senza il quale il nostro ruolo professionale viene sottostimato e svalorizzato, ma è il sistema alberghiero italiano nel suo complesso che in questo modo perde in efficacia e competitività.”

Ciò vale sia per l’albergo di categoria economica che per gli alberghi che fanno parte dei marchi più prestigiosi del lusso più spinto. Ho verificato personalmente, con un certo stupore, che per esempio le recensioni online, terrore degli albergatori, sono assai diffuse e temute anche negli alberghi più prestigiosi, dai Four Seasons e Waldorf Astoria ai vari Relais & Chateaux e Leading Hotels of the World. Il gossip piace e fa opinione a tutti i livelli e in tutte le classi sociali.
“Verissimo. Tornando alle competenze che qualificano un Dirigente d’albergo, la certificazione dovrebbe partire da una laurea almeno triennale, da competenze linguistiche certificate o acquisite con lunghi periodi di soggiorno all’estero (di anni, non di mesi), da un aggiornamento continuo e certificato anch’esso. Il turismo è diventato industria dell’ospitalità e come tale richiede certificazioni, aggiornamenti continui, capacità di acquisire un carisma professionale serio e consolidato. Esattamente come accade nell’industria manifatturiera classica. Ciò anche per una precisa finalità professionale: l’investitore, il proprietario di complessi alberghieri che valgono decine di milioni di euro devono comprendere che se vogliono essere coerenti con gli investimenti effettuati, e non rischiare il fallimento economico, devono rivolgersi a professionisti qualificati e certificati, altrimenti aumenterà il loro rischio d’impresa. L’importante, come sempre, è avere le idee chiare su rischi e benefici, in albergo come ovunque. Questo credo dovrebbe essere il tema del dibattito nel nostro settore e l’obiettivo professionale e identitario di un’associazione di direttori d’albergo. Smettiamola di essere schiavi della nostra vanità, rimettiamoci in discussione per il bene sia di chi lavora in albergo oggi che di chi vorrebbe entrarci.”

Renato Andreoletti
Hotel Domani


mercoledì 11 giugno 2014

DO YOU SPEAK ENGLISH? NO GRAZIE E TU?


Negli ultimi anni il settore del turismo sta vivendo una forte crisi, ma non si parla solo di crisi economica ma di una crisi peggiore e molto più preoccupante, cioè la difficoltà nel reperire personale serio e professionale.
La carenza di professionalità dovuta anche alla poca conoscenza della lingua inglese è uno dei fattori piu’ preoccupanti negli alberghi, e logicamente in Italia vogliono espellere gli insegnanti Madrelingua dalle scuole
Questi docenti non solo insegnano un inglese perfetto ma hanno competenze indiscusse come: la comunicazione nel mondo multietnico, il body language, l’importanza dello scambio interculturale, Role Play e potrei fare tanti altri esempi.
Gli studenti durante il normale percorso educativo e formativo non possono fare a meno di questi professionisti per mettere in evidenza le loro capacità, soprattutto per quanto concerne le cosiddette “abilità trasversali e linguistiche.
Sviluppare un buon sistema di riconoscimento in aggiunta alla valutazione delle competenze e delle capacità personali è un passo significativo per l’inserimento nel mondo del lavoro

Siamo ancora convinti che i docenti madrelingua non sono importanti?
Allora cerchiamo di approfondire il problema da un punto di vista statistico.

Quanti sono gli italiani che studiano l’inglese?
Pochi, soprattutto se paragonati a quanti lo studiano in altri Paesi. Secondo un’indagine del Censis, i corsi linguistici in generale in Italia interessano circa 275 mila persone.
L’EF, azienda che si occupa di studio delle lingue straniere, ha invece stilato una classifica sulla conoscenza dell’inglese in vari Paesi sulla base di un indice legato ai test «Proficiency».
Al primo posto c’è la Norvegia, con un punteggio di 69,09 classificato come «alto livello di competenza». L’Italia si trova a metà classifica, esattamente al 23° posto, con un punteggio di 49,05 che viene definito «basso livello di competenza».
Al nostro livello Paesi come Taiwan, Cina, Brasile, Spagna. Peggio di noi solo un gruppo di Paesi come Perù, Venezuela, Turchia, Kazakhstan, Colombia, Panama, Vietnam.
La Spagna e l’Italia hanno il punteggio più basso di conoscenza dell’inglese tra gli adulti in Europa anche se si inizia a studiarlo molto presto a scuola.

E gli italiani come giudicano la loro conoscenza?
Secondo il Censis il 66,2% degli italiani sostiene di conoscere le lingue, una percentuale piuttosto elevata. Se però questa lingua devono anche utilizzarla, le cifre calano vistosamente: la metà degli intervistati ritiene la propria preparazione soltanto scolastica, soltanto il 23,9% ritiene buono il proprio livello e appena il 7,1 lo giudica molto buono.
Gli italiani che conoscono le lingue sono un po’ meno della media nazionale al Sud e nelle isole, cioè il 63%. Il Nord-Est è l’area con la percentuale media maggiore: il 69,3%, cioè quasi sette italiani su 10, sostengono di conoscere le lingue. Valori piuttosto alti anche nel Nord-Ovest (67,5%).

Gli stranieri, invece, che cosa pensano dell’inglese parlato dagli italiani?
Dalle risposte a un questionario degli studenti Erasmus in Italia, emerge un giudizio impietoso sull’utilizzo della lingua inglese in Italia.
Appena l’1,4% lo ritiene indispensabile, contro il 46,6% che lo ritiene assolutamente inutile e il 53% che lo ritiene utile, ma non fondamentale.

Dove imparano le lingue gli italiani?
L’indagine ha censito più di mille strutture: oltre alle scuole di lingua private (21,3%), emerge il ruolo del sistema di formazione professionale (44,9%) che propone, insieme a moduli all’interno di altri percorsi formativi, anche veri e propri corsi di lingua, e del sistema di istruzione, soprattutto dei centri territoriali permanenti per la formazione degli adulti (10,5%).
Cresce il ruolo del terzo settore e delle infrastrutture culturali, che complessivamente sono il 15,3% dei soggetti che realizzano formazione linguistica. Circa il 50% delle strutture propone corsi di lingua, il 22% realizza solo moduli linguistici e il restante 28% attiva sia moduli che corsi. In relazione ai soli corsi di lingue, il 72% delle strutture ha proposto corsi collettivi, il 27,7% a singoli individui e il 26,5% a personale aziendale e della Pubblica Amministrazione.

La Cina continua a provarci
Wang Xinlu, presidente dell'Università di medicina tradizionale dello Shandong e membro del comitato permanente dell'Assemblea politico-consultiva cinese, è un tipo testardo. Quando, a inizio marzo, ha lanciato la sua proposta di conferire alla lingua inglese uno status meno importante in Cina, era già il terzo anno che ci provava. Con scarsi risultati.

Concludendo
Il vero passaporto, oggi, sono le lingue straniere, se si vuole appartenere a un mondo plurale e multilingue. Ma chi lo insegna ai nostri ragazzi?
Le legge è chiara: l’insegnante deve avere un’apposita formazione che include la conoscenza dell’inglese e la competenza didattica per i soggetti in fase evolutiva.
Sappiamo bene che un conto è insegnare ad un adulto, un conto ai bambini / ragazzi con metodi sempre piu’ accattivanti e moderni. Basta con “the book is on the table”
Non possiamo piu’ accettare insegnanti con un attestato di lingua straniera regolarmente concesso dopo un corso biennale di 280 ore

Buon Lavoro
Alberto Lavorgna

martedì 3 giugno 2014

IL CONSULENTE



Il Consulente

Un pastore è con il suo gregge in un remoto pascolo quando arriva una Jeep Cherokee ed in una nuvola di polvere si ferma davanti a lui. 
Il conducente, un giovane con un vestito Brioni, scarpe Gucci, occhiali RayBan e cintura YSL scende dall'auto e chiede al pastore: "Se le dico esattamente quante pecore sono qui al pascolo me ne darete una?".
Il pastore guarda il tizio e poi il gregge e gli risponde: "Certo". 
Il tipo parcheggia, prende il portatile, lo collega al telefono satellitare, si connette con la NASA, richiama il sistema di navigazione satellitare, analizza l'area, apre un database con circa 60 complesse formule Excel.
Alla fine stampa 150 pagine con la sua stampante portatile miniaturizzata, passeggia intorno al pastore e gli dice: "Avete esattamente 1586 pecore!".
Il pastore risponde: "Esatto!
Come da accordo prendete pure una pecora" e guarda il tizio scegliere la bestia e caricarla sulla Jeep. A quel punto il pastore: "Se vi dico esattamente qual e' il vostro lavoro, mi restituite la pecora?".
"Ok, perché no" risponde il giovane. "Voi siete un consulente" dice il pastore. "Esatto " -risponde il giovane- "come l'avete azzeccato?".
Il pastore: "Facile, siete spuntato qui senza che nessuno vi avesse chiamato, volete essere pagato per risolvere un quesito di cui già conosco la risposta e non sapete nulla dei miei affari perché avete preso il mio cane"
Morale:
Oggi c'è troppa gente che dice di essere consulente, ma non è vero che tutti lo siano: infatti non basta la parola!

lunedì 28 aprile 2014

RESTARE COPPIA (DOPO I FIGLI). CE LA POSSIAMO FARE?

È verità indiscussa che ogni coppia infelice con figli è infelice a suo modo. Parafrasando Tolstoj, Sam Leith potrebbe sottoscrivere lui questa frase senza pensarci troppo. Cronista del Guardian, ad agosto ha accettato di fare da cavia per un esperimento singolare: ha aperto le porte della sua casa al guru di terapia familiare Andrew G. Marshall, autore del bestseller “Io ti amo ma tu mi metti sempre all’ultimo posto”Un manuale di terapia di coppia destinato a chi ha figli e ha visto la coppia disgregarsi sotto i colpi di questi deliziosi, piccoli e amatissimi nuovi membri del nucleo familiare. Con dieci regole ferree da applicare per tutelarsi dallo tsunami bambini.
Leith è partito dall’autoanalisi della propria famiglia. Le tante parole non dette tra lui e la moglie Alice,in una guerra fredda di coppia. O gli sguardi persi nel vuoto al mattino di fronte a colazioni infernali in cui Marlene, 4 anni, si impunta perché vuole non solo Special K ma anche l’aggiunta di Shreddies. O Max, due anni, urla disperato per il latte versato, a torto, sui suoi cereali. Bastano le immagini di quella mattinata, pubblicate dal Guardian , per comprendere subito quello che Sam dichiara disarmato:
«Se Alice ed io ci fermiamo a riflettere su come fosse la nostra vita prima dei bambini, la verità è che non ce la ricordiamo più. Non ce lo ricordiamo perché la mia mente in questi giorni è come un pannolino zuppo. Ma sono certo che c’è stato un passato fatto di risate, baci,e passeggiate nei campi. Vacanze a Instanbul e Marrakech, o in auto in giro per la Provenza. Invece l’ultima nostra estate l’abbiamo passata in un motel francese senza finestre, aspettando che i bambini si addormentassero».
Sam Leith si è messo di fronte a uno specchio, e ha analizzato la sua coppia con una freddezza da entomologo: «Il nostro matrimonio è solidissimo. Abbiamo due bimbi bellissimi, una bella casa, due bei lavori. Ma so che trascorreranno almeno dieci anni prima di ricominciare a sorridere. Parliamo del 2023! Eppure stiamo facendo semplicemente quello che ci chiede la società: mettendo i nostri figli al primo posto». Poi si pone la domanda fatidica: «E se stessimo sbagliando tutto?».
La risposta è arrivata proprio da Andrew G. Marshall, invitato a casa per studiare i Leith. E la soluzione fornita alla fine di questa giornata di studio, a quanto sembra, va contro ogni moderna tendenza: dovete mettere i bambini al secondo posto. Spiega Marshall: «Sarebbe più facile convincere le persone a mangiare un gatto che a seguire questa regola banale». Suppergiù la stessa cosa che nel 2005 aveva provato a spiegare agli americani la scrittrice Ayelet Waldman nel suo libro Motherlove , nel quale dichiarava di amare di più suo marito rispetto ai loro bambini: «Siamo noi il cuore, i bambini i satelliti». Si scatenò un putiferio, e ci fu perfino chi si spinse a chiedere l’intervento dei servizi sociali. Waldman fu costretta a spiegarsi da Oprah Winfrey. Succederà anche a Marshall? Intanto il suo metodo funziona eccome. Sam Leith, dopo la visita a casa, si è impegnato per applicare le dieci regole e convincersi che Alice viene prima di tutto. Via dunque a messaggini lasciati sul frigo o scritti sullo specchio del bagno. Telefonate per dirsi solo ti amo. Spazi ritagliati davvero per se stessi. E regole, ai bambini, per non farsi invadere la vita. Con un unico obiettivo: salvare la coppia. Perché, giura Marshall, solo così si salvano anche i bambini.
Angela Frenda

lunedì 21 aprile 2014

PAUSA PRANZO? SERVONO NUOVE IDEE

Ciao Ragazzi, leggendo e documentandomi in giro come non dare ragione a questo articolo


Per i costi aumentati del 137% dal 2001 ad oggi, un lavoratore su due si porta il pasto da casa, quindi il costo elevato unito alle esigenze salutistiche delle persone costringono i professionisti del settore ad inventarsi nuove idee.
Addirittura c’è anche un libro di Stefano Arturi dal titolo “Pausa pranzo. Come stare lontano dai bar e vivere felici” che riassume in breve la situazione.

Siamo oramai sicuri che le vetrinette pieni di panini con il cotto e l’aggiunta di salse non invogliano piu’ il cliente a entrare, quindi cosa fare?


100 Montaditos di Roma è l’esempio vincente dell’innovazione con i suoi 100 panini con prodotti spagnoli ad 1 euro “Veloce, buono e conveniente”
Insomma è il caso di rottamare i vecchi panini (come dice il nostro buon Renzi) ed iniziare a guardare la propria offerta con occhio critico e inventarsi qualcosa di nuovo.
Come possiamo proporci sul mercato?
Variando l’offerta, proponendo nuove formule puntando alla qualità sempre più richiesta senza perdere d’occhio i tempi del servizio. 

PIATTINO SI, MA FASTGOURMET 

Avete un piccolo bar senza cucina, con pochi coperti e logicamente senza chef stellati come consulenti?
La via d’uscita c’è e si chiama sottovuoto a bassa temperatura, presente in Francia dagli anni ’70 e portata in Italia da Gualtiero Marchesi ed in seguito usato da tutti i grandi Chef.
Monoporzioni da rinvenire al momento in pochissimi minuti, una tecnica che mantiene le proprietà organolettiche degli ingredienti, ne esalta i sapori e azzera la carica batterica.
Testimone di questo successo innovativo è Bruno Castella, titolare di Fast Gourmet, società milanese che vende 5 milioni di monoporzioni all’anno in tutta Europa al canale HO.RE.CA
I punti di forza di questo prodotto sono: la qualità, la shelf life di circa 60 giorni che azzera gli sprechi e la facilità nella preparazione. 
Con le sue 80 referenze si puo’ offrire un menù stellato anche in un piccolo Ristorante a gestione familiare.    

FastGourmet di Bruno Castella

lunedì 24 marzo 2014

QUESTO ARTICOLO 62 COSA HA CAMBIATO ?


QUESTO ARTICOLO 62 COSA HA CAMBIATO ?
Vediamo un po' dopo più di un anno dall'entrata in vigore dell'articolo 62 cosa è cambiato.

Dopo uno spauracchio iniziale dove un'altissima percentuale di ristoratori aveva iniziato con il piede giusto rispettando i termini di pagamento che prevedono i 30 giorni per i prodotti alimentari deperibili ed i 60 giorni per tutti gli altri, oggi la situazione è ben diversa.
Indovinate cari ristoratori cosa emerge da una ricerca condotta da Cribis D&B realtà specializzata nelle business information?
Emerge che il comparto HORECA, il vostro per intenderci, risulta essere quello che meno rispetta i termini di pagamento sanciti dall'articolo 62.
Pensate, solo poco più del 20% delle imprese di questo canale risulta essere puntuale con le scadenze dei propri fornitori. Quindi chi era puntuale prima lo è anche oggi e chi non lo era prima non lo è nemmeno adesso.
Ovviamente con il ridursi dei termini di pagamento ufficiali aumentano anche gli insoluti, una raffica di RIBA respinte ogni fine mese.
Io personalmente non ho mai creduto nella validità di questo nuovo modo di pagare le fatture.
Sapevo sin dall'inizio che pochissimi avrebbero rispettato la legge, perchè in un sistema italiano dove tutto è sballato, non era certo un articoletto che poteva sistemare le cose, anche se di base il concetto con il quale si è proposto è corretto.
La realtà dei fatti però è anche un'altra. Le imprese del settore alimentare italiane per paura di perdere clienti consentono di allungare i termini di pagamento
Quello che auspico ? CHIAREZZA
Spero che intervenga l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato per far rispettare questo provvedimento o che definitivamente questo articolo venga abrogato.
Umberto Tiriticco